La periferia

Ho vissuto per anni in una grande città (Milano) e anche in una cittadina di provincia (Merate), ma vivere in un paese è un’altra cosa.
I vicini di casa hanno un connotato decisamente diverso, a seconda della realtà nella quale vivi.
Alcuni paesi hanno perso le loro origini, perché si sono riempiti di persone emigrate dalle grandi città e da altre nazioni. Sono diventati come piccole città.
Altri paesi, invece, sono riusciti a mantenere il loro carattere.
È un bene o un male?
Direi che è molto soggettivo.
Quando vivevo a Milano, la socializzazione con i vicini non andava oltre il buon giorno e buona sera, e solo se erano particolarmente gentili da fare lo sforzo.
Capitava di aprire il portone di ingresso al palazzo e sentire qualcuno che sbatteva velocemente le porte dell’ascensore per fuggire e non essere costretto a passare qualche istante con me in un imbarazzante silenzio dentro quella stretta cabina.
Nella sciagurata ipotesi in cui la fuga non riusciva, ci si rassegnava alla condivisione del piccolo spazio dell’ascensore, che diventava l’equivalente del miglio verde del film: il condannato a morte costretto a percorrere quel tratto di corridoio verso il patibolo.
Il mio ospite solitamente era concentratissimo a contare le ragnatele negli angoli dell’ascensore e a controllare se c’erano delle crepe, polvere per terra, macchie nelle pareti, possibilmente vicino terra, facendo molta attenzione a non alzare e incrociare il mio sguardo.
Altrimenti avrebbe corso il rischio che gli rivolgessi la parola, e questo sarebbe stato troppo da sopportare.
Già passare un minuto e mezzo in quella situazione imbarazzante era una prova notevole. Ma se poi qualcuno avesse detto qualcosa… Meglio non pensarci nemmeno.
A Merate, le cose erano leggermente diverse.
Capitava anche di scambiare qualche sorriso (sic!) con il vicino, ma non con tutti.
Ricordo quella volta in cui dimenticai le chiavi di casa in ufficio.
Allora abitavo da solo e, oltre a non esserci nessuno a casa, non mi ero mai posto il problema di lasciare il doppione delle chiavi a qualcuno.
Così il mio mazzo di scorta giaceva tranquillo sul mobile della sala, pronto ad essere usato. Se solo ci fosse stato qualcuno in casa.
La legge di Murphy insegna: se qualcosa può andar male, lo farà.
Così la mia mancanza era capitata di venerdì, con un bel weekend davanti. E il mio ufficio era a trecento chilometri di distanza.
Ero arrivato sotto casa alle 20:30 e quando mi ero apprestato a recuperare le chiavi dal soprabito, mi ero reso conto di non avere il soprabito nel sedile dietro.
Così collegai i puntini e il disegno apparve in tutta la sua perfezione: avevo appeso il soprabito nel porta abiti dell’ufficio. Qualcosa che non facevo abitualmente. Così, al momento di uscire non mi ero preoccupato di recuperarlo.
A quel punto, che fare?
Trecento chilometri per andare a recuperare le chiavi? Sarei arrivato chissà a che ora, e non avevo le chiavi dell’ufficio. No, fuori discussione.
Trovare un albergo per la notte?
Ma, oltre a non essere pronto per una simile evenienza, era venerdì. Una notte non sarebbe bastata, ne servivano due. E lunedì dovevo essere da tutt’altra parte. Sarei ripassato dall’ufficio forse verso la fine della settimana dopo. Fuori discussione anche questa soluzione.
Il doppione delle chiavi era lì, in sala. La porta che dava sul balcone non si chiudeva bene, quindi bastava arrivare al balcone e aprire. Peccato che abitavo al primo piano…
Dopo aver valutato la possibilità di salire dal balcone, di calarmi dal piano di sopra, arrampicarmi dal balcone di sotto e altre cose del genere, ed essermi reso finalmente conto che non lavoravo al circo, ho deciso di chiamare i pompieri.
Pensavo che arrivassero con un camion scala, in modo da salire fino al mio piano ed entrare dal balcone.
Invece arrivarono con una autopompa, anche se non c’era nessun incendio da spegnere.
La soluzione era di calarsi dal balcone di sopra, come avevo inizialmente pensato io. Ma loro sono i pompieri e sono attrezzati.
Tirarono fuori una scala con ramponi che avrebbero agganciato al balcone per calarsi da lì. Occorreva andare dalla signora del piano di sopra e farsi aprire la porta.
Così andai al secondo piano e suonai alla vicina, una signora di settanta e più anni.
“Cu ie?”
“Buona sera, sono Licari”
“Cu?”
“Licari, signora”
“E cu ie?”
“Abito sotto di lei”
“Ah si?”
“Si, signora. Ho bisogno di chiederle un favore”
“Dica”
“Mi può aprire?”
“E picchè?”
Vabbè, tralasciamo il resto della conversazione, che è durata altri cinque minuti buoni.
Alla fine sono riuscito a entrare in casa.
Da quella sera la vicina ogni tanto si fermava a parlare con me.
Fantastico, no?
Ora abito in un paese di mille e cinquecento persone.
Un po’ di tempo fa, mia moglie ha avuto un malore. Le ragazze, che vivevano ancora con noi, hanno chiamato l’ambulanza che l’ha portata all’ospedale di Lodi.
Sono tornato immediatamente dal lavoro e sono andato direttamente all’ospedale.
Fortunatamente, nulla di grave, e dopo qualche ora eravamo già a casa.
Nel pomeriggio decido di andare a bere un caffè al bar.
“Ciao Angela” dico rivolto alla proprietaria del bar.
“Ciao. Come sta Sabrina?”
“… come sta?”
“È venuta la Carla a dirmi che questa mattina l’ha portata via l’ambulanza”
“E chi è Carla?”
“La fiorista”
“Quella che vende i biglietti del pullman?”
“Si, lei. Sai, sua cugina Franca abita di fronte a casa vostra…”
“Ah, ho capito. Caspita, come girano le voci…”
“Eh, si. Il paese è piccolo e la gente mormora…”
“Ci manca solo che lo sappia il sindaco…”
“Il fratello della Carla?”
“Come il fratello della Carla…”
“Si, suo fratello è il sindaco e lo zio fa il vigile.”
“Azz!”
Eh, il paese ha logiche diverse, soprattutto quando ha conservato la propria identità.
A proposito, il giorno dopo mi ha chiamato mio fratello.
“Ciao Massimo, Sabrina sta meglio?”
“Anche tu? E chi te l’ha detto?”
“Sai, il mese scorso abbiamo assunto un ragazzo che vive nel tuo paese…”

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